Pubblico la riflessione di Giancarlo Sammartano, cofondatore con Giusto Monaco della scuola di teatro classico, dell’allora Istituto Nazionale del Dramma Antico.
Riflessione utile a chi al momento gestisce la Fondazione del Dramma Antico. La scuola che ho in mente sta con un piede nel ricordo e un piede nel futuro. E’ strabica: un occhio al passato, l’altro al domani. Il passato – non trascorso- si chiama l’antico. Come il Lykeion di Aristotele nell’Atene del IV secolo, il Perìpatos, dove si faceva lezione con gli esoterici camminando. Come le botteghe del ‘500, dove si cominciava impastando le terre per fare il colore; dove si dipingeva in collettivo, al chiuso, perché fuori, l’impasto secca subito. Come nelle tourneé dei comici stravaganti del Teatro dell’Arte, dove il tempo di apprendere durava quanto il tempo di vivere. E così Leonardo scriveva Quando io imparerò a vivere, e io imparerò a morire. Come nelle famiglie d’arte del ‘700 e dell’800 dove non si diceva mai come si fa, ma come non si fa. Come negli Studi del primo Novecento –luoghi separati, tempo sospeso, serre senza vetri- in cui si coltivava l’utopia di un Teatro diverso e superiore, bello perché utile, superbo perché ricco di orgoglio, umile perché colmo di dignità. Come nella Sala dorata del Musikverein di Vienna, dove anche suonare il triangolo è un privilegio. Ma anche come nelle cantine della Roma degli anni ’60 e ’70, nelle periferie di Napoli, Firenze, Milano, Torino, dove corpi inesperti – ma quanto veritieri- allievi di se stessi, cercavano la loro via controvento, guardando stupiti a maestri lontani, senza cattedra: Fuchs, Copeau, Stanislavskij, Mejerchol’d, Reinhardt, Piscator, Brecht, Jouvet, Dullin, Vachtangov, Decroux, Graig, Jacques-Dalcroze, Grotovski, Beck, Costa, Brook, Strehler, Baush, Bene, Pasolini…
Una Scuola che non ha paura della Tradizione, ma sa incarnarla, farla viaggiare, che capisce in sé la staffetta di un corpo ideale di valori, il concerto di modi che lega il vecchio al nuovo. Che muta senza perdersi. Che dal Teatro prende e al Teatro rende.
La Scuola che ho in mente per domani -che in arte vuol dire oggi- ha tre colori: verde, rosso e nero. Il verde è quello degli alberi che la circondano, che la rendono ombrosa, fresca d’estate, protetta l’inverno. Alberi che dopo la pioggia pisciano ancora a lungo, mentre spunta l’arcobaleno tra le nuvole, e insegnano così a non temere la battigia delle cose. Il rosso è quello dei sipari, delle poltrone, delle guide, dei tappeti. Il nero è quello delle quinte, dei fondini, dei panorami, dei celetti. Sì, perché la Scuola che ho in mente contiene in sé tanti piccoli teatri, dei Malij, banchi di prova di un volo simulato che dovrà farsi viaggio nella realtà dei grandi teatri, dei tanti Bolshoi del mondo. In questa Scuola devono esserci anche degli spifferi, quei soffi d’aria fresca che accarezzano la platea (calda) quando si apre il sipario sul palcoscenico (freddo). In questa Scuola sarebbe un gran bene se le voci, la danza, il canto degli allievi –come i cappellini delle attrici per Madama Pace- evocassero un buon numero di fantasmi. Potrebbero prendere qui dimora, così da avere una casa comune, molto disordinata ma quanto interessante. Si aggirerebbero, la notte, ciascuno a suo modo, spostando oggetti, mischiando carte, animando gli spazi. Si sentirebbe, si vedrebbe Oreste ululare alla terra col cuore straziato dalle Erinni, Pilade che vuole morire al suo posto, il furore di Elettra, la follia di Aiace, di Eracle, il coraggio di Antigone, il lutto di Ecuba, di Andromaca, il peccato fatale di Edipo, l’ irriverenza di Strepsiade, l’utopia di Trigeo, il comunismo di Prassagora, il profumo di Lisistrata, il malumore di Cnemone, l’idiozia di Pirgopolinice, l’astuzia di Pseudolo, la vecchiaia di Lear, l’apparire di Puck, il mistero di Calibano, il pallore di Iago, lo scrigno di Arpagone, la partenza di Anzoletto, le bugie di Lelio, il volo di Arlecchino, le giravolte di Chestakov, la malinconia di Irina, lo strazio di Nina, la danza della Raniéskaia, la malia di Lulù, le lacrime di Shen-te, il pesce di Gali Gay, il coltello di Mackie Messer, i sofismi di Cotrone, la passione di Ilse, La Moreno che vuole schiaffeggiare l’Autore, l’ombra dell’angelo Centuno, il signor Bonaventura col bassotto…
In questa Scuola non si insegna.
Eppure si mostra. Si baratta esperienza contro passione. Ma non solo: anche altre identità, maschere di tecnica incarnata che possano allargare la via senza snaturarla, decifrarla senza spiegarla. La Scuola è un grund. Chi arriva e chi parte. Artisti vengono, poi vanno, forse torneranno. Maestri da amare e odiare, e poi odiare e amare. Perché non danno risposte, non fanno domande. Educano, non insegnano. Parlano a una parte di te che vive in esilio. Cercano di non uccidere il bambino che è in te per farti diventare quello che non sei. Per questo spesso dispiacciono, non compiacciono, allettano e poi confondono. Sono lì e sono altrove. Sono strani. Ti fanno aspettare e tacere. Promettono un insieme imminente in cui tutti i dettagli affioreranno da soli e dal disordine nascerà l’armonia. Come? Quando? Come il segreto della ciliegia secca di Firs: Chi lo sa? E’ che non tutto si capisce subito. Capire presto dà gioia ma non dà il sapere. Al momento giusto, quando il sapere sarà divenuto saper fare, scalcerai la scala sotto di te e ti metterai in cammino.
In questa Scuola non ci sono registri né voti. Ci sono compiti diversi per ognuno. Oggi non si sa cosa si farà domani. L’unica carta è quella dei libri. L’unica punizione è il ridicolo. Si studia e si lavora insieme restando divisi, senza toccarsi. Non ci sono compagni di banco, ma persone diverse con cui pure bisogna convivere, sapendo che presto, molto presto, ci si separerà, forse per sempre.
Perché poi, si sa, comincia un’altra vita, la seconda giovinezza.
In questa Scuola c’è una sola materia: il Teatro. Teatro in tutte le sue declinazioni e i suoi casi, la sua grammatica, la sua sintassi, i suoi stili, le sue poetiche, la sua ideologia. L’ideologia. E’ una bellissima parola: significa dare ordine, fondamenta, direzione, senso terreno a un’idea che sta in alto, eppure si vede, tra le nuvole, in un orizzonte illuminato.
E infatti quando si perde di vista l’ideale comincia l’oscurità.
Il Teatro –così pensato- non è più solo uno spettacolo, è una concezione del mondo, è un’invenzione della vita per scurire le cose troppo chiare, per chiarire le cose troppo oscure. La sua finzione è un trucco per rifondare l’anima a un piano superiore di verità. Questo Teatro non ha che fare con l’estetica ma con l’etica, è un’arte radicale e se la radice dell’uomo è l’uomo, il teatro, di lui, deve occuparsi, preoccuparsi e provvedere.
A che? Unire gli uomini per il meglio che vi è in loro.
Una Scuola di Teatro dove imparare a vivere, a essere seri, a essere buffi.
Giancarlo Sammartano