GIANCARLO SAMMARTANO convegno organizzato dalla Fondazione INDA su “ANTICO CONTEMPORANEO” 20-21 Maggio 2015, Palazzo Vermexio Siracusa
(Una nota su per chi e perché fare teatro)
Il Teatro: est et non. Azioni reali per un racconto effimero. Nato ai margini di un rito festivo, divino per destino, diabolico per natura, il teatro fa bene, fa male? Non fa niente? E’ un farmaco, un veleno, un placebo? A che serve, a chi serve? Molte irragionevoli domande. Poche sensate risposte. Se il potere si occupa del teatro (nei soli due –analoghi- modi che conosce: proteggendolo o soffocandolo), il teatro ha un contropotere anche quando non sa, o dimentica di averlo, non sa o non vuole usarlo.
Nell’Atene del quinto secolo il teatro è un’istituzione principe, ha un grande potere. E’ il luogo enigmatico di una superiore pedagogia, il tempo lungo dell’orgoglio identitario. Un’intera città va in scena. Poeti che scrivono, ma non per essere letti, tutto deve essere visto. Mostrano l’uomo mentre si muta, nel mentre dice sì, nel mentre dice no. Mostrano il suo agire, il suo esitare, il suo dolore. Si vede Oreste ululare alla terra, col cuore straziato dalle Erinni, Pilade che vuole morire al suo posto, il furore di Elettra, la follia di Aiace, di Eracle, il coraggio di Antigone, il lutto di Ecuba, di Andromaca, il peccato fatale di Edipo.
E il pubblico, chiamato a giudicare, impara a conoscere se stesso.
Nel gioco d’ombre di quel teatro c’era qualcosa di divino, eppure diabolico. C’era serietà e verità in quella finzione. Nell’apparenza c’era l’altrove, il diverso, il superiore.
Allora, il Teatro fa bene.
Eppure, poco più di un secolo dopo, Aristotele nelle sue liceali lezioni sull’arte poetica sorvola –per ciò stesso degradandola- sull’arte dell’attore, la messa in scena. L’opsis, lo spazio e il momento irripetibile dello spettacolo si è involgarito, degenerato. Una mimési che riproduce “tutto”, che mostra anche ciò che si può e si deve immaginare, offende intelligenza e libertà del pubblico. Ne ha colpa forse il materialismo della sofistica, le stravaganze drammaturgiche dell’ultimo Euripide. Certamente gli attori: Minnisco chiama “scimmia” Callipide per la sua mimica troppo esagerata. Il teatro ha preso la china pericolosa della diversità, dell’orrida stravaganza di un mondo alla rovescia. Velut aegri somnia, vanae fingentur species dirà Quinto Orazio Flacco nella sua Arte Poetica. E infatti nella Roma repubblicana il teatro delle maschere, quelle storiacce scatologiche –schiavi, etere, ruffiani e debosciati- è roba per il popolino.
E sarà a lungo così, con i giullari scacciati dai gradoni delle chiese, i comici nomadi contro vento, in un continente dai tanti stati, diversi eppure uniti dalla ferocia del credo religioso. E’ in questa babele di lingue, usi e costumi che il teatro, già irrimediabilmente profano, rompe il suo specchio. E si taglia.
Nel 1582 Giordano Bruno –Accademico di nulla Accademia- scrive una commedia scortese, in una lingua esplicita, e soprattutto eretica nel suo scenario di senso: Il Candelaio, un maestro di scuola di ambigua natura e di scoperta immoralità. Il tutto in spregio dichiarato dei precetti aristotelici – non solo le tecnicalità unitarie- sulla moralità pedagogica del teatro che Francesco Robortello e Lodovico Castelvetro andavano da tempo, con altri, affannandosi a ridefinire per meglio sancire il delectare-docere. Poco importa che la pubblicazione della commedia susciti solo mormorii (a produrre scandalo si era occupato in abbondanza qualche anno prima Pietro Aretino); Giordano Bruno si farà male, molto male, su un altro fronte: toccando con l’eliocentrismo copernicano i fili del finitismo aristotelico pagherà anche quello scherzo teatrale
Il “processo al teatro” riesplode negli anni ’60 del XVII secolo (dopo l’infinita querelle du Cid) con il caso di Tartuffe; di dritto e rovescio vi furono coinvolte molte eccellenze: il vecchio Corneille, il giovane Racine, l’abate d’Aubignac, Molière. Nemici sul piano dell’esegesi aristotelico-oraziana, si scopriranno però alleati nel difendere il diritto di esistenza del Teatro. Era in pericolo non questa o quella forma di spettacolo, ma il Teatro in sé. Sotto il ricatto di optare per eutanasia o postribolo il teatro si arrocca intorno a un principio di legittimità costituzionale. Non potendo vincere in campo aperto, sceglie la guerra di logoramento: assalto e trattativa, tregua e scontro. E che l’alternativa tra piacere ed elevazione morale non fosse insuperabile l’aveva detto proprio Orazio. Omne tulit punctum qui miscuit utile dulci.
E così via per innumerevoli storie che potrebbero star tutte nell’imbuto del 1697, quando per una sola, anche se sferzante, battuta satirica su una signora molto vicina alla corte di Luigi XIV, l’Ancien Théâtre italien sarà cacciato via dal Palais Royal. In esilio.
Ora, il Teatro fa male.
Di teatro, di solo teatro, si può anche morire. Nel giugno del 1939 alla Conferenza pansovietica dei registi Vsevolod Emil’evic Mejerchol’d parla della responsabilità dell’artista. Sono quarant’ anni che si batte nel reale possibile per l’utopia improbabile di un teatro rivoluzionario che possa sollevare il mondo facendo leva solo sul corpo, mente e coscienza dell’attore. Per il potere il teatro di Mejerchol’d é precipitato nel formalismo deviazionista: rode e mina i principî dello Stato. A fine giugno viene arrestato e dopo mesi di interrogatori –picchiato a sangue con un tubo di gomma- il primo di febbraio del ’40 viene processato a porte chiuse. In venti minuti il Collegio Militare della Corte Suprema dell’URSS lo condanna a morte per spionaggio. Il giorno dopo fucilato. Ucciso non per avere fatto qualcosa, ma per essere qualcuno: diverso e pericoloso.
Una lunga storia del teatro letta, non solo attraverso le forme dello spettacolo, ma guardando anche sotto il magnifico abito della sua scena, sotto la sua pelle, rivela lo scheletro di un corpo veritiero e disarmato, che lotta in una guerra non tutta sua, inseguendo controvento l’utopia di un uomo diverso e superiore.
Ma se –con Brecht- il pericolo dura sempre più della fuga, oggi, sulla soglia ancora del terzo millennio, trenta secoli di storia e d’arte, la censura dei poteri cerca e trova nuovi strumenti di brutale semplicità. Per un esito incontrovertibile, quindi molto sofisticato oggi non servono decoro, pudore, morale. Sono territori dai confini troppo mercuriali: basta il solo e puro denaro. Dietro di esso avanzano in carrozza i generali del supremo comando della visione a distanza. Parlano lingue di cento parole, prive di autonomo senso, ossessionate dal nuovo, funzionali solo a trasmettere altre gerarchie di valori. Drammaturgie come precetti per l’azione, da tradurre e applicare ad horas nel sociale. Cancellato con un tratto di penna il passato, si può fare allegramente a meno del futuro. Si sta, ilari e stupiti, nella landa ebete di un presente che non passa mai.
Il Teatro è così “censurato” non più in exitu ma in nuce. E’ irriso e disertato per la sua aristocratica vecchiaia, per i suoi arroganti silenzi, per la sua misteriosa complessità, per il suo febbrile sperpero di energia. In una parola per la sua antieconomicità. Ma se soffre lo Spettacolo, stringe i pugni il Teatro. Essi non sono la stessa cosa. Quello sta in questo, ma non può esaurirlo tutto nel tempo breve della rappresentazione. Lo spettacolo è solo la parte visibile, l’epifania di un insieme nascosto: un sistema di concezione del mondo che solo accidentalmente ha a che fare con le forme estetiche. Il Teatro si mostra –who’s there? Look, my lord, it comes!- nel tempo e nel luogo dello spettacolo, ma vive una dimensione segreta che lavora ad incarnare un’idea: la mutazione perenne dell’uomo, non necessariamente evolutiva, sempre verticale. Teatro come disciplina applicativa della filosofia: conoscenza come trasfigurazione. Volontà e poi capacità di afferrare le cose alla radice: e per il Teatro la radice dell’uomo è l’Uomo. La mutazione come destino, non solo processo. Anassimandro lo aveva sintetizzato così: “Il medesimo perdurando in sé medesimo, stando esso in se stesso, stabilmente si perderà.”
Giancarlo Sammartano